Sono nato nel 1942 a Bologna, pertanto sono cresciuto e ho studiato nel periodo in cui in arte si esauriva la parabola modernista. Al liceo Artistico insegnavano maestri indimenticabili: ormai anziani erano ciò che era stata la scuola artistica del “ben fare”, interpretandone la fine con composta rassegnazione. All’Accademia invece – dove mi diplomai in scultura – c’era un’aria da “e adesso che cosafacciamo?”, con apodittiche tesi riconducibili al concetto che va’ bene tutto, purchè non sia figurativo. Mutava anche il lessico attingendo dal vocabolario scientifico, ragion per cui non si studiava, ma si faceva ricerca e non esistevano più il bello e il brutto, ma solo il più o meno interessante. Sopra tutto aleggiava poi la fastidiosa impressione che qualunque fosse stato alla fine il prodotto, l’unico metro con il quale sarebbe stato misurato sarebbe stato quello del suo successo commerciale. Nel mio disagio una sola certezza: la scultura non era affatto una lingua morta.
Ad onta della sua fisicità la scultura parla una lingua sottile che può sfuggire per l’invadenza di quel suo esserci, che ingombra e proditoriamente sottrae spazio al mondo fisico che abitiamo. Materia in se stessa opaca e tuttavia vivente: nella luce (come in Medardo Rosso o in Fontana) o nella forma (come in Arp o in Viani), ma che, proprio per la non ovvietà del suo rivelarsi, può riuscire ostica e difficile. Il suo oltre, ad uno sguardo distratto, è meno accattivante e persuasivo di quello offerto dalla pittura, così come il suo configurarsi in luogo stante da sempre ne ha favorito un uso didascalico e strumentale. Ma la scultura, come una montagna incantata, non ha principio ne fine: un grazie quindi da scultore a tutti gli scultori che, nonostante tanti equivoci e costrizioni, da sempre hanno saputo percorrerne le infinite vie.